martedì 27 gennaio 2015

Storie di donne, licenziamenti e dolore

Quella che vi racconto è una storia, ma non è una storia come quelle che si raccontano ai bambini. E’ una storia vera. E’ una storia di soprusi, di ingiustizie, di rassegnazione e di abusi. E’ la storia di alcune donne, ma diventa la storia di tutte le donne. Donne in gamba, intelligenti, capaci, ma inchiodate al muro dall’ottusa ignoranza e dall’arrogante violenza di datori di lavoro senza scrupoli. 

Questa storia non è ambientata in un indefinito “c’era una volta”, né tanto meno nelle piantagioni di cotone dell’America di Via col vento. Questa storia è qui e ora, in una delle nostre civilissime ed evolute città industrializzate. E le protagoniste sono donne emancipate, lavoratrici e madri, spesso laureate a pieni voti, sono donne moderne, professioniste esemplari che danno un contributo significativo alle aziende presso cui lavorano o lavoravano, perché molte di loro non lavorano più. Sono state licenziate.
E’ la storia di Marta, persona solare, dinamica, vera. E’ sposata con un uomo che ama molto, il loro è un matrimonio basato sulla complicità e la comprensione. Si sono conosciuti durante una vacanza, la storia è iniziata come cominciano molte relazioni, sulla scia del divertimento e della leggerezza; tornati nelle rispettive città nessuno dei due avrebbe immaginato che l’altra persona fosse diventata ormai una parte insostituibile della propria esistenza, tanto che Marta decide di trasferirsi nella città di lui, dove si sposano innamoratissimi.
Marta è laureata a pieni voti ed ha maturato una cospicua esperienza in alcune aziende del settore informatico, cosicché quando le si presenta l’opportunità di mettere a frutto le proprie competenze in un’azienda giovane e dinamica, di cui apprezza soprattutto l’intraprendenza del titolare, suo coetaneo, non esita ad accettare l’incarico con entusiasmo.
Inizia a svolgere il suo ruolo di project manager con un forte spirito di abnegazione ed una passione travolgente, trattenendosi spesso oltre l’orario d’ufficio e facendo molte ore di straordinario, peraltro non retribuito. Marta è affabile e gentile con i clienti, non si lamenta mai ed ha una spiccata capacità di negoziazione, così tipica dell’universo femminile. L’ambiente è cordiale, con i colleghi riesce ad instaurare un rapporto di immediata simpatia reciproca, tanto che molti diventano suoi amici da frequentare piacevolmente anche dopo il lavoro. Marta è finalmente serena, le difficoltà iniziali di ambientarsi in una città diversa dalla sua appaiono superate, il lavoro le dà gratificazioni, i colleghi la stimano, il suo matrimonio procede a gonfie vele.
Manca solo un tassello a completare il mosaico perfetto della sua vita: un bambino. Quando si rende conto di volere davvero un figlio, e che il marito condivide pienamente il suo desiderio, inizia ad immaginarne il volto, gli occhi che vorrebbe neri e profondi come quelli del compagno, le minuscole manine che vorrebbe le accarezzassero il viso teneramente. Ma il bambino tarda ad arrivare, tanto che Marta inizia a preoccuparsi e a sottoporsi ad alcuni accertamenti medici che, però, escludono qualsiasi problema; forse l’eccessivo stress non aiuta, le dice la sua ginecologa, ma Marta non riuscirebbe mai a svolgere con minore ardore il suo lavoro, che ama ogni giorno di più.
Finalmente un giorno Marta scopre di essere incinta: ora la sua felicità è completa. Continua a lavorare senza sosta fino all’ottavo mese, senza risparmiarsi. Il suo titolare ne apprezza il senso del dovere e non lesina sugli elogi, soprattutto quando Marta, grazie alla sua costanza e alla sua determinazione, riesce a chiudere un contratto importante con un grosso cliente, da tempo corteggiato dalla sua azienda. Tutto procede a meraviglia, il corredino del bambino, che ha scoperto essere una femminuccia, è pronto, un trionfo di rosa a cui contribuiscono anche le amate colleghe, ormai amiche per la pelle.
Poi, poco prima della maternità, la doccia gelata: l’azienda le chiede di dare le dimissioni. Non può, infatti, licenziarla, ma le fa capire esplicitamente che non ha più bisogno di lei e a nulla valgono le sue proteste e i suoi rifiuti, che diventano sempre più flebili, fino a smorzarsi seppelliti dalla pesante coltre del senso di colpa, perché le viene insinuato il dubbio che un’eventuale azione legale contro l’azienda danneggerebbe irrimediabilmente i suoi colleghi che ancora vi lavorano. Marta è incredula, stenta a credere che tutto quello che aveva costruito con amore e dedizione fino a quel momento stia per essere spazzato via; inizia ad accusare un profondo malessere che si traduce in una minaccia di aborto. Di fronte alle legittime richieste di una spiegazione plausibile trova il muro impenetrabile di un datore di lavoro diventato improvvisamente ostile. Per farle capire che sta facendo sul serio la sposta persino in un altro ufficio, angusto e senza finestre, lontana dalla sua postazione e dalle sue colleghe. Probabilmente un assaggio di quello che le toccherebbe sopportare se rifiutasse di licenziarsi. Così Marta, sfinita e amareggiata come mai prima d’allora, decide di arrendersi.
E’ una calda mattina di luglio quella in cui, seduta di fronte al suo titolare, che evita accuratamente di guardarla negli occhi, versa due lacrime sulla lettera in cui comunica “con la presente, le proprie dimissioni con decorrenza immediata”. Ora Marta si ritrova all’improvviso senza lavoro, il lavoro che amava profondamente e per il quale aveva dato tutta se stessa.

Ma Marta non è un caso isolato: stessa azienda, altra lavoratrice. Veronica ha un carattere tranquillo e accomodante e questo piace ai suoi interlocutori ai quali riesce ad infondere serenità. E’ una persona colta e preparata, ama leggere, aggiornarsi. La sua cultura classica, perfezionata con una laurea in lettere, le consente di svolgere al meglio i progetti di formazione di cui il reparto aziendale appena inaugurato si occupa. La sua proverbiale discrezione la rende una confidente preziosa per molte delle sue colleghe con le quali, durante le pause pranzo, ama condividere i piccoli problemi della quotidianità.
Veronica ha una bambina che adora e riesce a conciliare, non senza sacrifici, casa, lavoro, marito e figlia, grazie al suo inappuntabile senso di responsabilità e ad una madre molto presente. Un giorno Veronica scopre che sta per dare un fratellino alla sua bambina. Commossa e felice lo comunica al suo titolare, con il quale ha anche un rapporto di amicizia; spesso lei e il marito, infatti, sono stati a cena da lui e la moglie. Hanno persino trascorso le vacanze estive insieme. Il datore di lavoro accoglie la notizia con apparente gioia e scherza finanche sul fatto che sta per diventare “zio”. Dopo qualche tempo, però, Veronica inizia ad accusare alcuni malesseri che la costringono ad assentarsi dal lavoro per qualche giorno. Quando ritorna lo scenario è cambiato: il titolare non l’accoglie con alcun sorriso, non le chiede neanche come sta. La chiama nel suo ufficio, la fa accomodare, la guarda duramente e le porge una lettera: è una lettera di dimissioni. Lei lo guarda allibita, lavora in quella azienda da cinque anni e ne è diventata una delle colonne portanti, non può credere a quello che vede. Lui le dice che l’azienda sta navigando in cattive acque e che preferirebbe che lei andasse via; naturalmente lui non può licenziarla in “quello stato, dannata legge di tutela delle donne”, ma lei può rassegnare le dimissioni. Veronica rifiuta con forza e indignazione, gli urla contro tutto il suo sdegno e va via sbattendo la porta. L’indomani si presenta al lavoro come sempre e sulla sua scrivania trova nuovamente la lettera di dimissioni. Dopo pochi minuti la raggiunge il titolare, le porge una penna e le dice: “Sei libera di non firmare, ma io ti farò scontare ogni giorno di malattia, di permessi e di assenze varie. Ti renderò la vita un inferno, fosse l’ultima cosa che faccio”.
Veronica ci pensa per giorni, ne parla con il marito e con un avvocato, ma alla fine decide che tutta questa tensione fa male al bambino che porta in grembo e firma la lettera con le lacrime agli occhi.
Oggi ha un altro lavoro, aspetta il terzo figlio, ma non ha mai dimenticato questa storia.

Altra città, altra azienda. Questa volta il settore riguarda l’organizzazione di eventi. Quasi tutte donne, il titolare è un uomo rozzo e ignorante, arrogante e violento. Luisa è una delle ultime assunte, il nominativo dell’azienda glielo ha fornito una sua ex collega che ha avuto modo di conoscere il “signore” in questione in occasione di un convegno, durante il quale i suoi modi erano ben lontani da quelli che riserva abitualmente alle sue collaboratrici. Ma Luisa ancora non lo sa. Durante il colloquio non ha un’ottima impressione e torna a casa con una sgradevole sensazione appiccicata addosso. Poi, però, si rianima e pensa a quanto sia difficile trovare un lavoro di questi tempi. Quando, quindi, viene chiamata dalla segretaria dell’azienda che le comunica il superamento della selezione, non può trattenersi dal ringraziarla calorosamente, ignorando il sospiro trattenuto della donna, quasi un tacito segnale di mille cose non dette.
Fin dai primi giorni del suo nuovo lavoro Luisa impara che il prezzo della sua dignità va ben oltre gli ottocento euro al mese del suo stipendio, misero bottino, paragonato ai tanti sacrifici fatti per conseguire l’agognata laurea in Economia Aziendale. Il titolare, infatti, è solito insultare le sue dipendenti in modo irripetibile ed è suo costume alzare la voce anche per inezie. Le sue collaboratrici sono donne laureate e preparate, lui, assolutamente incolto, vive un profondo senso di inferiorità che trasforma in prepotenza inaudita. Ama creare un clima di terrore, è l’unica forma di potere che conosce, non avendo qualità né propensioni, ma solo la fortuna, che non è un merito, di essere molto ricco, abusa continuamente del suo potere con continui scatti di violenza, prendendo a calci porte, sbattendo i pugni sulla scrivania, lanciando oggetti, facendo sobbalzare le sue dipendenti ogni giorno. Alla sua prepotenza fa da contraltare un profondo atteggiamento servile nei confronti dei “potenti”: assessori ed esponenti delle istituzioni che gli procurano lavoro. Il suo abuso di potere si estende anche alle molestie: abbracci fintamente innocenti e soprattutto non desiderati, dati sempre con malcelata noncuranza. Per non parlare delle continue allusioni e degli incessanti doppi sensi, delle battute volgari che è solito fare soprattutto quando fa branco con i pochi uomini dell’azienda.
Una mattina Luisa, varcando la soglia del cancello condominiale, ha la triste sorpresa di appurare che la sua auto non c’è più. Sparita nel nulla, l’auto che stava ancora pagando a rate sembra essersi volatilizzata. Corre dai carabinieri per sporgere denuncia, correndo trafelata avvisa l’ufficio dell’accaduto. Quando arriva al lavoro, angustiata e abbattuta, il suo titolare l’aggredisce urlandole contro che non è disposto a tollerare un altro ritardo per nessun motivo; quando lei cerca di spiegargli l’accaduto lui tuona che sono cose che non lo riguardano e che, qualora dovessero ripetersi, la butterà fuori a calci.

Marta, Veronica, Luisa: tre donne diverse, con lavori differenti così come differenti sono i loro modi di agire, di sentire, di amare, di soffrire. Ma tutte accomunate dagli stessi, ingiustificabili soprusi.Verrebbe da dire: perché non reagiscono? Perché non denunciano? Ma è facile giudicare. Sono donne che hanno bisogno assoluto di lavorare, ribellarsi non è facile; alcune sono donne sole con figli da mantenere, altre cercano di reagire, rispondono agli insulti, alzano la voce di rimando, ma la loro vita è diventata un inferno e il lavoro un campo di battaglia. La verità è che questi esempi non sono episodi estremi, sono all’ordine del giorno in moltissime aziende e a farne le spese sono donne in gamba, autonome, indipendenti, non sprovvedute, come si potrebbe pensare a prima vista.
Potrei raccontarvi decine di storie come queste, storie di brillanti professioniste che in fase di colloquio si vedono proporre uno stipendio inferiore rispetto a quello degli amici uomini con lo stesso titolo di studio e le medesime esperienze lavorative (maturate persino nella stessa azienda), potrei raccontarvi di donne incinte costrette a lavorare in ambienti dove si fuma ininterrottamente, potrei raccontarvi …
Non commettete l’errore di pensare: a me no, a me non può capitare. Non è così. Il mondo del lavoro in molti casi lascia spazio ad individui arroganti e violenti, incapaci di confronti dialettici, ma assolutamente avvezzi alla violenza e all’uso intimidatorio di un potere che il ruolo ricoperto non giustifica in alcun modo. La violenza contro le donne ha molte facce, quella sul luogo di lavoro è una delle più tristi e parla di storie dove l’orco non è relegato alle fiabe per bambini e dove il lieto fine spesso non esiste. Storie vere. Storie che accadono qui e ora.

venerdì 17 ottobre 2014

Una pianta contro la fame

Segnalo questa importante iniziativa di Oxfam:
Il 18 e 19 ottobre, in 600 piazze d’Italia potrai sostenere la lotta alla povertà di Oxfam. 

http://www.oxfamitalia.org/agisci/unapiantacontrolafame/una-pianta-contro-la-fame?utm_source=oxf.am&utm_medium=jsy&utm_content=redirect#sthash.Az53sgQJ.dpuf
http://www.oxfamitalia.org/agisci/unapiantacontrolafame/una-pianta-contro-la-fame?utm_source=oxf.am&utm_medium=jsy&utm_content=redirect


martedì 23 settembre 2014

Perchè il femminicidio non è un omicidio

Ci si chiede spesso come mai il femminicidio sia un fenomeno quasi esclusivamente italiano, almeno tra i paesi occidentali.
Penso che la vera domanda da porsi debba essere: è possibile che vi sia una effettiva parità tra uomini e donne se non vi è parità nelle rappresentazioni dei media?



Come sostiene Graziella Priulla nel libro “C’è differenza”, Il rapporto tra media e società è bidirezionale, con reciproche influenze; i media insegnano anche senza che lo vogliamo, per questo sono molto potenti nello stabilire e diffondere gli stereotipi. Insomma, impongono modelli, soprattutto quelli di genere.
E questi modelli non sono rappresentativi dei cambiamenti della società, in particolare in Italia che, insieme alla Grecia, come risulta da un rapporto condotto su scala europea, figura all’ultimo posto nella rappresentazione paritaria tra i generi.

Soprattutto in tv le donne sono rappresentate come elementi decorativi e, siccome la televisione è vista sempre più da bambini, non è difficile capire quanto questi modelli possano influire negativamente sulla percezione dell’immagine femminile nelle future generazioni. Il risultato è sempre lo stesso, dunque: ridimensionare le donne, alle quali viene riconosciuto il solo dovere di essere belle e di piacere, poco importa che siano mute.

E’ stato calcolato che, nelle trasmissioni televisive italiane, su 100 donne solo 53 sono parlanti, gli uomini lo sono tutti. La cosa grave è che queste tendenze si esportano anche nel mondo dei giochi per bambini, con bambole dalle labbra voluttuose, da truccare e vestire come donne sexy,  ricalcando i modelli televisivi. In questo modo i bambini interiorizzano modelli adulti sbagliati.

Spesso è proprio la complicità femminile ad essere sconfortante, in quanto molte donne non ritengono immorale trattare il proprio corpo come merce di scambio per acquisire notorietà e denaro.

Si comincia sin da piccole ad essere derubate dell’infanzia, persino le bambine sono spesso rappresentate in pose ammiccanti, oppure mentre giocano a fare le mamme, ovvero secondo due stereotipi a cui i genitori, forse inconsapevolmente, si adattano. 
Inoltre, è stato dimostrato che concentrarsi ossessivamente sul look sin da piccoli può portare a dimenticare altre parti fondamentali di sé, come la sfera del ragionamento o quella emotiva e l’interesse eccessivo verso il proprio corpo può far sentire inadeguati, perché il modello da raggiungere è troppo lontano, dando origine a malattie come l’anoressia.


Bisogna alzare il livello di consapevolezza partendo dalla scuola, che ha l'arduo compito di proporre modelli di riferimento diversi, e dai media, affinché assumano coscienza della grandissima responsabilità che hanno verso la società. Un'osservazione: se la donna viene rappresentata come oggetto, il femminicidio non è più un omicidio nella mente di chi lo compie!!!

Dunque, ci meravigliamo ancora del fatto che il femminicidio sia un fenomeno italiano????


venerdì 2 maggio 2014

Un reale surrealismo


Rientrata in Italia in occasione delle festività pasquali, colgo l'occasione per una visita specialistica. Dal dottore, il solito discorso: beata lei che vive all'estero, qui in Italia siamo allo sbando, i politici sono dei veri ladri, non fanno che rubare, tutti, nessuno escluso...e blablabla...


Ascolto paziente la solita solfa, poi, al momento di pagare, chiedo la fattura. Lui mi guarda stranito e mi informa che, senza fattura, avrei uno sconto di 50 euro. Io gli dico che voglio pagare la cifra intera, ma pretendo la fattura. Lui mi dice di aver lasciato a casa il libretto delle fatture...
Il punto è: perché tantissime persone non ritengono che l'evasione fiscale sia un furto e perché non capiscono che se l'Italia non fosse afflitta da questa ignobile piaga, la quasi totalità dei suoi problemi economici sarebbe risolta?????
Sembra che lo sport nazionale sia lamentarsi di quello che fanno gli altri, sentendosi estranei alle cause che hanno determinato il disastro collettivo dell'Italia. E ogni volta che ci torno provo la stessa rabbia di chi vede una persona amata maltrattata e pestata da tutti...
Per la cronaca ho minacciato il luminare di andarmene senza pagare e, come per magia, è spuntato lo scomparso libretto...

mercoledì 19 febbraio 2014

Mi racconti una storia?





L’uomo è un essere sociale, il bisogno di stare con gli altri e di costruire relazioni è innato. E le relazioni si costruiscono attraverso la comunicazione ed il linguaggio.

Questo bisogno si tramuta sovente in un desiderio di affabulazione che nasce da bambini, quando non ci si stanca mai di ascoltare le favole.

Negli anni ’60 era Carosello che raccontava agli Italiani storie che oggi fanno sorridere per la loro ingenuità e che, tuttavia, contenevano invidiabili elementi creativi.

Negli anni ’80 gli spot televisivi hanno dominato il panorama dell’advertising e alcuni di loro sono rimasti impressi nella memoria collettiva, diventando veri tormentoni.

In particolare gli spot della Barilla sui “ritorni a casa” offrono un’interessante chiave di lettura, riproponendo uno schema classico, mirabilmente approfondito da Vladimir Propp nel suo Morfologia della Fiaba.

Ricorderete senz’altro lo spot della bambina in impermeabile giallo che raccoglie dalla strada un gattino, portandolo a casa.
L’eroe/protagonista è posto di fronte ad una difficoltà/ostacolo, che, grazie al suo impegno e alla sua tenacia, riesce a superare per approdare all’atteso lieto fine.

E’ l’eterno trionfo del bene sul male, meccanismo ripreso anche da numerose fiction televisive.

E con i social network cosa è cambiato?
Moltissimo nella fruizione dell’informazione, nella possibilità di interagire, nell’opportunità di essere tutti editori di se stessi, ma c’è una cosa che resta immutata: il desiderio di leggere ed ascoltare storie.
Non a caso le aziende che hanno meglio sfruttato le potenzialità dei new media sono quelle che hanno saputo costruire meccanismi narrativi.

Persino nella comunicazione politica (Obama docet) le foto e i video di vita familiare, che raccontano momenti del quotidiano, hanno avuto un maggiore impatto sul pubblico.

Un pubblico più critico e maturo, più consapevole e smaliziato ma che, spesso, non può fare a meno di chiedere: mi racconti una storia?












Zio Giuseppe e la rete

Ricordo che quando ero piccola, davanti all’unico bar del paese nativo di mia madre, si accalcava ogni giorno una piccola folla: uomini e donne, bambini e ragazzi.


Tutti ascoltavano rapiti le storie di “Zio Giuseppe”, un personaggio che ognuno di noi conosceva, originale e un po’ estroso, amava intrattenere i suoi compaesani raccontando storie.

Nessuno sapeva quanto di inventato o di vero contenessero, fatto sta che le sue parole, mai casuali, sempre scelte con cura, avevano un potere ammaliante, in grado di inchiodare per ore le persone davanti al piccolo bar. Persino le pause e i silenzi erano calibrati con sapiente maestria da Zio Giuseppe.


Alcuni adulti fingevano disinteresse, mostrandosi occupati a fare altro, ma intanto non si muovevano dal posto in cui Zio Giuseppe affascinava il pubblico con i suoi racconti.

Iniziavano tutti con un “mi ricordo che una volta”…. e al suono di queste parole tutti si fermavano, pronti ad essere stupiti di nuovo.


Ancora oggi non posso fare a meno di manifestare la mia ammirazione di fronte ai, purtroppo non tanti, “Zio Giuseppe” che ci sono sul web.
Il desiderio di ascoltare storie è insito nell’uomo, essere rapiti dalle parole è un’esperienza che non ci si stanca mai di provare.

Ogni volta che esprimo un “mi piace”, o condivido una storia, tributo un silenzioso applauso a Zio Giuseppe.

Mi hanno detto che è ancora vivo e che delizia con i suoi racconti gli ospiti della casa per anziani dove vive, ma forse questa è solo un'altra storia …